Il tempo del saluto
a cura della Dott.ssa Elisa Varotti | Psicologa Psicoterapeuta | 27 marzo 2020
In questi giorni sono scomparse molte persone, dico scomparse perché molti familiari non hanno potuto assistere alla morte dei loro cari.
Morte, sopraggiunta nei letti d’ospedale dove le persone se ne sono andate in solitudine e circondate solo, per quanto possibile, da carezze e parole di medici, infermieri e OSS senza volto, a causa dei dispositivi di protezione che indossano. Morte sopraggiunta nelle case di residenza per anziani, dove i nostri cari si sono spenti tra le cure e l’assistenza di personale che in tutti i modi cerca di sostituirsi alle famiglie assenti e lontane. Morte sopraggiunta anche per chi in questi momenti dovrebbe essere in piedi tra le corsie a prendersi cura di chi ha bisogno di cura, ma che per qualche ragione si trova inverosimilmente coricato alla stregua dei suoi pazienti, isolato da tempo dalla sua famiglia e lontano dagli abbracci e dal conforto che gli affetti sanno dare.
Se la morte è separazione, questo virus ha alimentato separazioni nella separazione. Ci ha divisi tra chi muore in solitudine e chi sopravvive e deve sopravvivere alla solitudine dell’assenza. Ci ha allontanati, togliendoci il diritto di esserci, stare e accompagnare i nostri cari al loro ultimo respiro e di poterli salutare in quel passaggio tra la vita e la morte, garantendo quella che nel linguaggio tecnico viene definita una morte dignitosa per il paziente. Spesso ad annunciare questa morte è una telefonata che arriva dai reparti COVID degli ospedali e a volte un carro funebre che trasporta la bara e passa sotto la finestra della casa del defunto.
Ci sono anche storie in cui le persone muoiono a casa, nella tranquillità dei loro ambienti di sempre tra le cure dei famigliari che a volte spaventati dall’eco delle informazioni o da esperienze vissute nei giorni precedenti preferiscono evitare ai loro cari le ospedalizzazioni, mettendosi in prima linea con forte rassegnazione e lucidità nel farsi carico degli ultimi momenti di vita dell’amato.
Scenari inimmaginabili di vite stroncate, di storie familiari spezzate da morti sospese che odorano di una sofferenza e di un dolore che sembrano non trovare voce in questo momento. Perché i defunti se ne sono andati, sono scomparsi, e ora sta a chi resta farsi carico del lutto, del vuoto che queste persone hanno lasciato.
Morti sospese. Si definiscono così le morti di questo coronavirus e le morti al tempo del coronavirus, perché ricordiamo che non tutti i decessi di questo periodo lo sono per effetto dell’emergenza. Morti sospese, perché per ciascuno di questi defunti e dei loro familiari manca e mancherà la ritualità della chiusura. Manca il saluto.
E badate bene che qui non si tratta di essere credenti o meno. C’è in gioco tanto, molto di più. C’è la possibilità di avere a disposizione un tempo per salutarsi, un tempo che può anche riparare la vulnerabilità delle relazioni, un tempo per guardare il nostro defunto, un tempo per restare e guardare in faccia la morte, un tempo di ricordi e un tempo di dolore in cui è possibile ed è permesso anche pubblicamente struggersi e piangere; un tempo di condivisione con le altre persone, con la comunità a cui si appartiene, con le persone che si stringono e si uniscono al dolore personale e familiare.
È una morte, questa, che sfugge al controllo, perché si nega agli occhi di chi ha invece bisogno di incontrarla.
L’assenza del saluto, della ritualità che accompagna la morte comporta e comporterà degli effetti importanti sull’elaborazione del lutto. È il rito, infatti, che imprime il tempo e scandisce il ritmo dell’elaborazione dando avvio al processo. Senza ritualità, senza saluti tutto rimane sospeso in una dimensione di incertezza e incredulità devastante; non c’è chiusura, anzi a volte la negazione dell’evento può aprire ad una dimensione di attesa frustrante e invalidante per i superstiti. È come se il lutto non fosse visto e riconosciuto e la mancanza di condivisione non lo rendesse vero e quindi affrontabile.
Ecco allora l’importanza di trovare dei modi famigliari e intimi di celebrare una perdita; se non può esserci condivisione sociale in questo momento è necessaria però una condivisione familiare. Penso alla memory box dei lutti perinatali, di quei bambini che muoiono prima ancora di essere partoriti dalle loro mamme, in cui il saluto dei genitori ai loro piccoli si celebra anche riempiendo una scatola con i ricordi di quel bambino, di quell’attesa disattesa, uno spazio fisico e mentale utile per ricordare e onorare la memoria di vite preziose. Questo è solo un esempio, ma è necessario che ogni famiglia trovi il suo modo di celebrare, uno spazio in cui è possibile dare voce al dolore e alla sofferenza, piangere, sentire la mancanza e la rabbia e condividere con gli altri membri silenzi e narrazioni che diano continuità tra il prima, l’adesso e il poi. Se ci sono bambini, renderli partecipi dei riti, dei pianti, delle narrazioni e dei silenzi darà loro la possibilità di capire cosa è successo, di avere traccia in ciò che accade dell’eredità affettiva che la persona defunta ci ha lasciato.Pensare di proteggerli tenendoli all’oscuro del dolore, non li aiuterà a elaborarlo: i bambini hanno bisogno di sapere e di avere uno spazio e una disponibilità emotiva da parte degli adulti che se ne occupano, capace di accogliere e contenere il loro vissuto e le loro emozioni.
Come scrive la terapeuta Ravaldi “non è possibile curare la morte, ma è possibile prendersi cura del dolore che resta.”
Questo articolo è stato scritto per la pagina Facebook Aiutiamociaparmaeoltre afferente al Polo Clinico IDIPSI di Parma